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Intervista a Danilo Monte, regista del corto 2061

Qual è stato il tuo percorso artistico?

Alla fine degli anni ’90 ho avuto la fortuna di incontrare e di collaborare con Alberto Grifi, il cattivo maestro del cinema italiano. Ho cercato di fare mio il suo prezioso insegnamento secondo cui non è tanto il film come prodotto finito a contare ma il percorso di trasformazione che metti in atto per realizzarlo. Partendo dal videoattivismo negli anni di Genova 2001 e gli studi al Dams di Bologna sono approdato al cinema documentario in maniera naturale. Per diversi anni ho lavorato a una serie di film autobiografici che avevano come comune elemento di indagine le relazioni familiari. Ho iniziato con Memorie, in viaggio verso Auschwitz, in cui nel corso di un lungo viaggio in treno mi confronto duramente con mio fratello e con i rimossi della nostra famiglia. Questo percorso umano e cinematografico è andato avanti con Vita nova in cui, insieme a mia moglie Laura, raccontiamo il nostro primo tentativo di fecondazione assistita. Nel mondo è invece il film conclusivo di questa trilogia che narra il primo anno di vita di nostro figlio Alessandro e il nostro diventare genitori. Oggi porto avanti con tenacia un’idea di cinema essenziale e scarno che, partendo dal realismo, sia in grado di far compiere a me e agli spettatori un viaggio spirituale intenso e sconvolgente.

Parliamo del tuo progetto in concorso al Laceno d’Oro, qual è stata la scintilla? Come è cominciato questo lavoro?

IEro alla ricerca di una location per un film di finzione che sto scrivendo e mi sono imbattuto nella zona di Torino che ospitò nel 1961 l’Esposizione Internazionale del Lavoro, ITALIA ’61. In occasione del centenario dell’unità d’Italia venne edificato un intero quartiere per celebrare, attraverso opere avveniristiche, il progresso e il benessere dell’Italia del boom economico. Oltre al Palazzo del Lavoro progettato da Pierluigi Nervi vennero costruite una monorotaia, un padiglione che ospitava una proiezione a 360° delle bellezze italiane prodotta da Walt Disney e Fiat, nonché una seggiovia e svariate altre attrazioni. Nell’anno di picco di immigrazione dal sud al nord Italia, tutto il paese andò a visitare ITALIA ’61 e lo testimoniano le molte immagini che l’archivio di film di famiglia Superottimisti mi ha messo a disposizione per realizzare 2061, il cortometraggio che presento al Laceno D’oro. Immagini in cui è chiaramente percepibile una estrema fiducia nelle possibilità di miglioramento che il futuro avrebbe riservato agli italiani e al mondo industrializzato in generale. Oggi, di quella promessa di progresso e benessere restano le macerie, il Palazzo del Lavoro è in stato di abbandono e il binario della monorotaia si interrompe bruscamente pochi metri dopo la banchina, quasi a suggerire che l’idea di progresso che si credeva infinito ha dovuto fatto i conti con una realtà sociale ed economica profondamente mutata. Mi sono trovato a vagare nella desolazione di ciò che resta di ITALIA ’61 e nello stesso periodo ho conosciuto Mohamed Amine Bour, un giovane poeta marocchino per cui stavo ipotizzando un ruolo da attore nel mio film di finzione. Allora ho pensato che lui avrebbe potuto incarnare perfettamente la disillusione a cui vanno incontro i migranti quando arrivano in Occidente e il paradiso che pensavano di raggiungere si trasforma in un inferno fatto di solitudine e competizione sociale estrema. Amine è un ragazzo arrivato da lontano che, vagando tra le macerie di ITALIA ’61, recita un testo poetico di cui è l’autore e in cui si abbandona a ricordi familiari profondamente in contrasto con la realtà desolata che ha di fronte, invitandoci a passeggiare tra ciò che era e ciò che non si sa cosa possa diventare. Tutte queste suggestioni mi hanno spinto a realizzare un film sospeso nel tempo che abita uno spazio abbandonato in cui l’unica ancora di salvezza sono i ricordi di un tempo che non c’è più.

Finalmente il cinema e i festival stanno tornando nelle sale. Pensi che dopo questi due anni il cinema, dalla produzione alla distribuzione e alla fruizione, sia inesorabilmente cambiato?

Non riesco a fare delle valutazioni lucide, i cambiamenti avvenuti da quando sono nato ad oggi sono stati troppo repentini per essere compresi e metabolizzati. Credo che si sia persa per sempre la possibilità di andare a fondo nelle cose e che il nostro vagare velocissimi e in maniera superficiale tra i diversi ambiti della vita porterà a una trasformazione antropologia profonda. Ma ora non saprei dire in che direzione, mi limito a constatare il mio profondo spaesamento nei confronti di molti fenomeni che mi ritrovo ad attraversare, tra cui ovviamente anche il cinema. Non sono un fanatico della proiezione in sala a tutti i costi, quando vedo un film spero che la visione si trasformi in un’occasione (anche fastidiosa) di provare emozioni intense che incrinino le mie certezze e che questo accada in sala, a casa o in treno con il telefono, poco importa. Il problema resta come, dove e quando incontrare l’altro, in un mondo in cui le raggiunte libertà individuali si sono trasformate in individualismo e quindi in profonda solitudine. A me personalmente questo periodo di stallo e di riflessione dovuto alla pandemia ha fatto anche bene se non altro per tornare ad apprezzare delle cose che davo per scontato, ma una volta usciti di casa dove andiamo? Con chi parliamo? Cosa diciamo? Non lo so proprio. Resto testimone di un tempo che scorre troppo velocemente per essere compreso e in cui il “fare cinema” mi aiuta a non perdere un equilibrio personale instabile e precario.

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