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Vincenzo Siniscalchi: l’avvocato che andava al cinema

Da uomo del Novecento il suo ultimo pensiero è stato l’avvenire. Perché nonostante i suoi novantadue anni, Vincenzo Maria Siniscalchi, ha continuato a interessarsi, con spirito da eterno ragazzo, a Costituzione e libertà, democrazia e partecipazione, ma soprattutto alla «possibilità di costruire una tavola di valori condivisa, per un futuro migliore». Queste le sue parole prima di perdere conoscenza al convegno dell’Anpi a Napoli, lunedì 12 febbraio. Una morte da politico ateniese, durante un’udienza, un epilogo che non può non ricordare Enrico Berlinguer a Padova, come sottolinea Antonio Bassolino. E della vita pubblica, Siniscalchi si è dedicato ad ogni sua possibile declinazione: «caposcuola», maestro per le generazioni più giovani di giuristi napoletani, da membro del Consiglio Superiore della Magistratura e deputato per tre legislature (prima Pds e poi Ds) ha contribuito alla definizione di proposte di legge in materia penale. Ambito in cui si è distinto come avvocato, per cura e professionalità, in difese trasversali, senza opporre il rango di «principe del foro». L’estrazione sociale e la notorietà non determinano la qualità della difesa in aula. Da Diego Armando Maradona agli imputati per reati connessi alle attività dei NAP (Nuclei Armati Proletari) e di Autonomia operaia, da Franco Califano, Ciriaco De Mita e Michelangelo Antonioni fino ai disoccupati in lotta e agli accusati dei processi di Tangentopoli. E se molteplici sono gli interventi e le pubblicazioni in tema di libertà di stampa e diritto dello spettacolo, da giovane, sottrae del tempo agli studi di legge per collaborare alle pagine culturali di Paese Sera, Il Mattino e Il Corriere di Napoli.

È la critica cinematografica a interessargli, una passione nata da spettatore grazie al Circolo del Cinema a Napoli. «Un luogo rivoluzionario della cultura dell’epoca – racconta nel documentario A chi tanto a chi niente di Michele Vietri – dove si scoprivano le opere in retrospettiva: il fascismo aveva bloccato la circolazione del cinema francese, americano e sovietico». Un avvio all’esercizio della democrazia e della pluralità che il secondo dopoguerra rimette in marcia: accanto al percorso di giurisprudenza, nel cinema, Siniscalchi trova la possibilità di scoprire sguardi diversi, rispettare le differenze, approfondire le argomentazioni. Alle proiezioni del sabato mattina, riempiendo schede critiche e partecipando a lunghe discussioni fino all’ora di pranzo, incontra il futuro storico del cinema Vittorio Martinelli, assiste alle presentazioni del matematico napoletano Renato Caccioppoli, diventa amico di Camillo Marino, «un agitatore culturale e politico», come preferisce definirlo, «Camillo mi affascinava perché mi raccontava le storie delle occupazioni delle terre del latifondo tra gli anni cinquanta e sessanta».

Occorrerà aspettare solo un breve periodo perché Siniscalchi possa assistere nelle stesse terre dimenticate dall’industrializzazione, alla nascita del Laceno d’Oro, dalle prime edizioni sull’altopiano irpino fino al trasferimento nella città di Avellino, negli anni settanta, e al «tormento di Camillo Marino»: le difficoltà di mezzi, pur acquistando il carattere di un festival del cinema. Sono gli anni che vedono come presidenti di giuria Domenico Rea, Carlo Lizzani, e Cesare Zavattini, in cui il Laceno d’Oro «diventa una vetrina per le più distanti cinematografie – continua Siniscalchi nel documentario di Vietri – un festival che ha rivelato per la prima volta in Italia il cinema jugoslavo, polacco, cecoslovacco… per rilanciare il neorealismo non come struttura linguistica, come linguaggio, ma come ricerca di valori sociali all’interno della cinematografia».

Ed è anche grazie a questa interpretazione estensiva, all’apertura a tutte le avanguardie, che il cinema di Tinto Brass ad Avellino «si trova bene», come commenta ironicamente Adelaide De Chiara nel reportage di “Epoca”, La chiave di Tinto (1988). Se in tutta Italia le opere del regista suscitano polemiche, scandalo e tentativi di messa al rogo, nel capoluogo irpino La Chiave, Miranda, Salon Kitty, Capriccio, sono tutti proiettati in anteprima e «giudicati assolutamente in linea con il comune senso del pudore» con verdetti di archiviazione di denunce giunte dal territorio nazionale. Un’anomalia per una piccola città di provincia, sempre a maggioranza democristiana. Fa presto la giornalista a svelare l’architettura messa in piedi tra il Laceno d’Oro e Tinto Brass. Una «strategia avellinese» in cui sono coinvolti amici ed estimatori del regista: Camillo Marino e Giacomo D’Onofrio, Gianni Massaro, avvocato romano difensore di attori e registi, in prima linea nella lotta alla censura, e «l’avvocato Vincenzo Siniscalchi – scrive De Chiara – principe del Foro napoletano e difensore di Brass tutte le volte che i suoi film sono finiti davanti a un giudice». Una tutela che va oltre il dovere d’ufficio come testimoniano le sue parole per l’anteprima di Paprika: «Tinto – rivela Siniscalchi a De Chiara – con Paprika raggiunge in pieno il suo obiettivo, che era quello di rivisitare il sesso in chiave gioiosa e non tetra. Non si può immaginare quanto le polemiche di questi giorni feriscano e quanto abbiano ferito sua moglie le femministe che hanno dato del “porco” a Brass. Tanto più che Tinto, e questo sa chi lo conosce bene, conduce una vita “patriarcale” tutta chiusa nel suo nucleo familiare, molto vicina alla moglie e ai figli».

Un capitolo della lotta alla censura in Italia che nella sua artigianalità e con l’aiuto di «una magistratura più tollerante» – specifica Paolo Speranza, direttore dei Quaderni di Cinemasud – meriterebbe uno studio approfondito. E forse diventare un film a sua volta. Per non permettere che si trasformi in passato, solo in avvenire. «Il valore della memoria per costruire un futuro migliore», direbbe Vincenzo Siniscalchi: questo il tema del convegno a cui stava partecipando all’Anpi il 12 febbraio al Plaza del Vomero, discutendo di democrazia. Un uomo del Novecento fino alla fine, a difendere la democrazia in un cinema, dove l’ha trovato la morte.

Bianca Fenizia

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