Qual è stato il tuo percorso artistico?
Sono sempre stato un autodidatta. Subito dopo aver finito l’Università ho iniziato a girare con l’aiuto del mio socio, Marco Santoro, le mie prime cose. Piccoli cortometraggi, videoclip, un film sperimentale, un po’ di tutto. Abbiamo fondato la nostra casa di produzione, Naffintusi, che oltre al Cinema si è sempre occupata anche di spettacoli audiovisivi dal vivo e di musica.
Parliamo del tuo progetto in concorso al Laceno d’Oro, qual è stata la scintilla? Come è cominciato questo lavoro?
Tutto nasce da un’ idea di Teho Teardo, con il quale avevo avuto il piacere di lavorare precedentemente su un altro cortometraggio dal nome La Flame. Aveva rivisto in piena pandemia, La Jetée, il film culto di Chris Marker e si era imbattuto nella recensione che ne scrisse J.G. Ballard. Dopo avermene parlato abbiamo cercato di pensare assieme ad Elisabetta Pacini ad un corto che, pur ispirandosi liberamente a quella recensione, fosse un’ opera a sé stante.
Finalmente il cinema e i festival stanno tornando nelle sale. Pensi che dopo questi due anni il cinema, dalla produzione alla distribuzione e alla fruizione, sia inesorabilmente cambiato
Il Cinema, come tutte le forme d’arte e come la vita stessa è inesorabilmente in continuo cambiamento. Mi sembra anche scontato dirlo. La pandemia ha solo accelerato questo processo di cambiamento, che come tutti i cambiamenti non è assolutamente per forza un male. I festival credo siano la cosa che più di altre sia mancata al Cinema. I festival sono e devo essere continuo motore di ricerca, devono poter dar spazio ad opere che hanno difficoltà ad entrare nei circuiti di fruizione di massa. Mai come ora credo personalmente che i festival debbano assumere un ruolo importante nel proporre al pubblico lavori che sfuggono al cosiddetto algoritmo delle piattaforme. Il rischio è quello di essere costretti a dover rivedere sempre lo stesso film in loop.