Qual è stato il tuo percorso artistico?
Nasco e cresco a Lugano, in Svizzera. Durante l’adolescenza mi avvicino a discipline come lo skateboard e il graffiti writing, esperienze che influenzeranno la mia visione del paesaggio urbano e dell’architettura. All’età di 21 anni mi trasferisco a Milano, dove studio e pratico la disciplina del filmmaking. Nel 2019 realizzo il mio primo cortometraggio L’azzurro del cielo, progetto che viene presentato lo stesso anno al Festival del Film di Locarno, e successivamente anche al Laceno d’oro. Presso l’Accademia di Architettura di Mendrisio frequento due edizioni del workshop Filming architecture. La prima edizione è guidata da Heinz Emigholz e Marco Müller, mentre la seconda dal filmmaker italiano Ila Bêka. Nel corso del 2021 realizzo Piazzale d’Italia, il cortometraggio in concorso a questa edizione del Laceno d’Oro. Da poche settimane sono rientrato da Lanzarote, dove ho avuto l’opportunità di trascorrere quasi due settimane assieme a Werner Herzog e ad altri filmmaker da tutto il mondo per un workshop
Parliamo del tuo progetto in concorso al Laceno d’Oro, qual è stata la scintilla? Come è cominciato questo lavoro?
Piazzale d’Italia nasce da una suggestione visiva. Visitando l’edificio protagonista del progetto, ho notato uno scorcio sul piazzale sottostante che mi ha rimandato subito alle Piazze d’Italia di Giorgio de Chirico, da qui anche il titolo. Inoltre, nel contesto in cui ho lavorato c’erano molti elementi intriganti, come l’indecifrabilità dell’architettura e l’ambiguità geografica del paese, poiché ci si trova in un’enclave. Si tratta di un edificio molto controverso e dibattuto in Ticino, sia per le enormi dimensioni strutturali sia per le vicende amministrative che l’hanno coinvolto negli anni recenti. La mia intenzione però è stata sin da subito quella di astrarre l’edificio dalla realtà, di trasformarlo in un’altra cosa, di ipotizzarne un’altra funzione. Proprio per questo motivo ne parlo in maniera così vaga, senza rivelare effettivamente di cosa si tratta.
Finalmente il cinema e i festival stanno tornando nelle sale. Pensi che dopo questi due anni il cinema, dalla produzione alla distribuzione e alla fruizione, sia inesorabilmente cambiato
Proprio negli ultimi dieci giorni mi è capitato di frequentare due festival, uno in Svizzera e l’altro in Italia. Aldilà delle mascherine, mi sembra che poco sia cambiato, le dinamiche sono più o meno le stesse, ho incontrato le solite persone con cui si fanno i soliti discorsi, e ho visto film buoni e meno buoni. Certo la pandemia è stata un gran scossone per tutti, ma penso abbia accelerato le tendenze già in corso piuttosto che averle radicalmente cambiate. Il cinema tra 100 anni sarà un’altra cosa, proprio come cent’anni fa era diverso rispetto a oggi, è inevitabile. Piuttosto mi preoccupa il rapporto sempre più superficiale che intratteniamo con le immagini. Viviamo una irreversibile sovrabbondanza di immagini, all’interno di una società dove l’immagine è diventata la vera lingua universale. Penso che gli artisti dovrebbero essere i primi ad essere sensibili su questo fenomeno. Forse nelle scuole si dovrebbe introdurre una lezione che ci insegni a guardare, a vedere, a fruire, a orientarci in questo caos quotidiano di immagini. Probabilmente arricchendo la generale sensibilità verso le immagini, il cinema, come altri linguaggi visivi, potrebbe preoccuparsi meno del proprio destino.